In Italia, tra 2010 e 2017 il numero di cause per diffamazione (le Slapp italiane) è raddoppiato, fino a registrare, nel 2018, l’aumento più preoccupante in Europa. A cadere vittima della macchina diffamatoria è stata anche la giornalista freelance Sara Manisera, querelata dal comune di Abbiategrasso.
415 attacchi a giornalist* registrati negli Stati membri dell’UE: è quanto riporta l’edizione 2022 di Mapping Media Freedom, il report annuale sullo stato della libertà d’informazione in Europa. Al primo posto per incidenza ci sono gli attacchi verbali (intimidazioni e insulti, il 42.4%), immediatamente seguiti da quelli legali (il 27.2% dei casi, 1 su 4). In Italia le azioni contro giornalist* sono state 45 e hanno coinvolto 71 persone: a minacciare la libertà dei media restano principalmente le cause per diffamazione o Slapp.
L’ironia è tutta lì, in un acronimo: Slapp, uno schiaffo in faccia alla libertà di manifestare il proprio pensiero e al diritto all’informazione. La sigla sta per Strategic Lawsuits Against Public Participation (querele strategiche contro la partecipazione pubblica), anche conosciute come querele bavaglio, perché intentate da governi, pubblici ufficiali e multinazionali contro giornalist*, attivist*, associazioni, sindacalist*, informator* ma anche persone comuni che denunciano fatti di pubblico interesse.
La situazione in Europa è allarmante: il report 2022 della Coalition Against Slapps in Europe (CASE) segnala una crescita costante dei casi di Slapp a partire dal 2010; 570 solo nel periodo compreso tra 2019 e 2021. Una sottostima, ovviamente, dal momento che statistiche esaustive ufficiali non esistono (e che molte delle vittime preferiscono evitare l’attenzione mediatica temendo ritorsioni).
L’Italia è il Paese messo peggio: tra 2010 e 2017 il numero di cause per diffamazione è raddoppiato, e nel 2018 ha registrato l’aumento più preoccupante a livello europeo. Secondo il Report Chi ha paura dei giornalisti? sulla missione Italia, la SLAPP viene descritta «come uno dei principali ostacoli al pieno godimento del diritto dei giornalisti alla libertà d’espressione e al diritto di cronaca in Italia. Molti hanno parlato del fenomeno come di “una spada di Damocle” pendente sulla propria vita professionale e privata, una minaccia all’esercizio del diritto di parola, sia a livello individuale sia a livello collettivo.»
Secondo l* attivist* di Protect the Protest, a contraddistinguere una Slapp è principalmente la disparità di potere (leggi ‘economica’) tra querelante e querelat*: per chi querela non è tanto importante vincere la causa, quanto intimidire e mettere a tacere ogni dissenso. Nella maggior parte dei casi, infatti, si tratta di liti temerarie, infondate: ogni anno, i due terzi delle denunce per diffamazione contro giornalist* vengono archiviate.
Eppure, chi intenta queste cause spesso raggiunge il proprio obiettivo, costringendo l’accusat* ad autocensurarsi, talvolta addirittura in cambio del ritiro della denuncia. Complici del trionfo della censura sono le richieste di risarcimenti spropositati (in Italia non esiste un limite, che invece è fissato a 50mila euro nelle procedure penali, cifra comunque assurda), l’angoscia di dover affrontare processi lunghi ed estenuanti, le difficoltà derivate dal dover pagare le spese processuali.
Quella de* giornalist* è già di per sé una categoria sottopagata e poco tutelata, soprattutto se si tratta di freelance, che il più delle volte non hanno alle spalle una redazione pronta a farsi carico di oneri legali. Succede quindi che testate e giornalist* evitino di occuparsi di determinati argomenti, soprattutto se coinvolgono personaggi noti per avere la querela facile. La portata antidemocratica di questi procedimenti emerge chiaramente in tutta la sua gravità.
La situazione italiana è diventata ancora più preoccupante con l’insediamento dell’attuale governo di destra, i cui membri hanno fatto ricorso in modo sistematico alle querele per diffamazione: nel 2020 Meloni in persona ha querelato il giornalista Roberto Saviano, che in una puntata di Piazzapulita aveva chiamato «bastardi» l’attuale premier e il leader della Lega Matteo Salvini per la loro campagna di criminalizzazione delle Ong (déjà-vu?).
Per non parlare di quanto successo alla redazione di «Domani»: già nel novembre del 2022 il direttore e il vicedirettore del giornale avevano subito una denuncia per diffamazione sempre da parte di Giorgia Meloni. Come se non fosse già abbastanza anomalo che una premier in carica denunci una testata, lo scorso 3 marzo le forze dell’ordine si sono presentate presso la redazione del giornale con un provvedimento di sequestro, a seguito di una denuncia di Claudio Durigon, sottosegretario al Ministero del Lavoro.
A cadere vittima della macchina intimidatoria delle querele è stata anche la giornalista freelance, e amica, Sara Manisera, che il 1° settembre 2022 ha ricevuto una querela per diffamazione da parte dell’amministrazione comunale di Abbiategrasso.
«Ad Abbiategrasso, in provincia di Milano, ho visto le mafie entrare nel comune, negli appalti pubblici, e dentro il cemento, perché alle mafie una cosa che piace è il cemento, i centri commerciali».
Durante la premiazione, davanti agli studenti ho pronunciato la seguente frase “ad Abbiategrasso, in provincia di Milano, ho visto le mafie entrare nel comune, negli appalti pubblici, e dentro il cemento, perché alle mafie una cosa che piace è il cemento, i centri commerciali
— Sara Manisera (@SaraManisera) September 13, 2022
Questa la frase “incriminata”, pronunciata dalla giornalista l’8 giugno 2022, in occasione del Premio Nazionale Giovani Diego Tajani a Cutro, non molto lontano dalla località oggi tristemente nota per il naufragio dello scorso 26 febbraio. Sara Manisera riceveva in quel momento il premio per l’attività giornalistica svolta e per l’impegno civile (ironia della sorte).
«La frase faceva parte di un discorso più ampio e generico in cui invitavo gli studenti e le studentesse a porre attenzione alla tutela dell’ambiente e del loro territorio, spiegando loro che le mafie oggi sono ovunque, anche al nord – non solo in Calabria – e che riciclano parte dei loro proventi illeciti nel cemento e nella costruzione. E che il primo passo per difendersi dall’infiltrazione delle organizzazioni di stampo mafioso è proprio la difesa dell’ambiente.» Ha spiegato la giornalista sui suoi profili social.
«La mia frase è stata estrapolata e decontestualizzata. Il suo senso è stato gravemente stravolto, come se mi riferissi all’attuale amministrazione comunale di Abbiategrasso. In realtà, non mi riferivo né a un politico specifico, né al comune – inteso come istituzione -, ma genericamente al territorio di Abbiategrasso e alla sua storia, non immune, in passato, alla presenza di organizzazioni di stampo mafioso.
La giunta di Abbiategrasso ha scelto di denunciarmi per diffamazione senza nemmeno accertare quello che intendessi dire. Non mi ha chiesto di rettificare – una prassi normale in genere – non ha richiesto un incontro pubblico, né ha smentito le mie affermazioni. Eppure la dialettica tra stampa e istituzioni dovrebbe essere di grande importanza democratica. Sono una giornalista, ho il diritto di informare e di criticare e sono ovviamente disponibile a un confronto pubblico, perché la mafia è un tema di interesse pubblico, non solo giudiziario.»
Un processo alle parole, ancora e per l’ennesima volta. Parole che, evidentemente, spaventano, che vanno oscurate e censurate.
Di crimine organizzato Sara Manisera si è occupata nel libro Racconti di schiavitù e lotta nelle campagne, ma non solo: in tutti i suoi lavori, nei reportage, nei documentari, nelle inchieste racconta le storie di chi viene discriminato, derubato del proprio futuro, di chi non gode di privilegi di classe. Ma anche delle persone stanche di essere descritte come vittime impotenti e, ai soprusi di chi si preoccupa solo dei profitti economici (aziende o istituzioni che siano), oppongono una resistenza silenziosa, che non fa notizia, e che parte dall’elemento base della nostra civiltà: i semi.
Eppure, Sara si ritrova oggi a dover far fronte a una querela insensata e paradossale, che potrebbe avere ripercussioni sul suo lavoro e sul servizio fondamentale che svolge per noi. È per questo motivo che, a distanza di mesi dalla notifica della denuncia, noi di Bosco Natio ci troviamo a condividere la sua storia e a esprimere la nostra solidarietà.
A questi tentativi di intimidazione, infatti, possiamo opporre quella che Antonella Napoli, giornalista sotto protezione, ha definito “scorta mediatica”: non lasciare sol* chi viene accusat*, ma ripubblicarne le inchieste, amplificarne il lavoro, parlare di loro in segno di solidarietà e vicinanza. E così, per dirla con Erri De Luca: «Sul banco degli imputati mi piazzano da solo, ma solo lì potranno. Nell’aula e fuori, isolata è l’accusa.»
«L’indifferenza è il peso morto della storia.
L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera.
È la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che strozza l’intelligenza.Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, avviene perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia promulgare le leggi che solo la rivolta potrà abrogare, lascia salire al potere uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare.»
Odio gli indifferenti, Antonio Gramsci